Conosco bene la solitudine. Quella di un mondo che non accetta. Quella delle immersioni nella moltitudine senza distinzione. Quella dell’attesa a un binario di prima mattina. Crescendo l’ho cercata spesso e ancora oggi sono un grande fan di spegnere ogni contatto e godere della compagnia di me stesso.
L’ho sempre detto e sempre lo dirò, sono persona da penombra, la luce mi limita e l’oscurità mi stanca.
Però la solitudine come assoluto, come esperienza totalizzante e psicopatologica di una vita intera quella no non mi piace.
La solitudine come resa strumentale e manipolatoria della “vittima seriale”, quella la allontano.
La solitudine del falso intellettuale, quello che pensa che i suoi libri siano diversi dai twit di un influencer di un tempo senza internet, quella la stigmatizzo.
La solitudine dell’incompreso maledetto dal peso della propria unicità, quella la aborro più di tutte. Forse perché anche io come tutti almeno una volta nella vita ne ho fatto uso. Quella solitudine mi fa sentire male, non è una solitudine buona e neanche neutra, è una solitudine egoista e miope, antievolutiva e antiscientifica. “Incompreso” non significa nulla, perché nessuno è in grado di esprimere completamente il proprio sé neanche a se stesso. Avvalersene è una scusa comoda e vigliacca.
E tra l’altro questa cosa dell’unicità è decisamente sopravvalutata.
Conosco la solitudine e mi piace giocare a poker con lei indossando volti che le svelino il mio animo, che la avvicinano e altri che occultino i miei pensieri e la allontanino per sentire la compagnia dei miei compagni umani.
È vero o falso che nasciamo soli e moriamo soli? Io continuo a dire che fino a quando non esista una “bilancia” per la solitudine, credere o non credere che esista è più che altro pigrizia o acuzia intellettuale, non saprei quale, ma entrambe molto vaghe.
Al contrario l’esperienza della solitudine, quella è reale. La vedo un po’ come un gatto grigio dagli occhi color miele. Bisogna lasciargli un po’ di spazio, coccolarlo con affetto quando è dell’umore buono e accettare pure qualche sua scena da diva che chiede attenzione. Tuttavia penso che sia sano anche prenderci una boccata d’aria ogni tanto e pensare che se il nostro rapporto non è mutuamente beneficioso non è che succeda nulla, ma tra il gatto e noi il vero padrone è lui.
Penso che con la solitudine sia uguale. Manteniamola con noi, nutriamola e sentiamoci amati da essa con il suo modo bislacco di mostrarlo, con le sue fusa vibranti e i suoi salti d’umore, ma non lasciamo che sia lei la nostra padrona perché ognuno di noi ha qualcosa di bello da condividere. Per farlo però dobbiamo lasciarci andare accettando la moltitudine di quando in quando.
Luca Povoleri